Lucia Baldini tra danza, scena e vita.
Mi ritrovo con Lucia Baldini dopo alcuni anni, dopo che avevo avuto l’occasione di conoscerla in occasione di un Progresso Fotografico il quale aveva per altro riportato un suo scatto in copertina. Uno scatto in bianconero, ritraente una figura di tango interpretata da una coppia. Ricordo benissimo quanto quel fotogramma ci colpì al punto da essere concordi tutti nel chiedere a Lucia Baldini la possibilità di pubblicarlo! Ed alla danza, alle scene, torniamo in occasione di una mostra che l’autrice dedica interamente ad un’artista che non ha alcuna necessità di presentazioni, ovvero Carla Fracci.
Una lunga collaborazione quella tra Lucia Baldini e la ballerina e coreografa, della quale le chiederemo, ma lasciandoci trasportare lungo il viaggio sulle scene del teatro, della musica e della danza di cui Lucia Baldini è interprete di grande sensibilità. Si tratta di una capacità di evidenziare il fulcro artistico dell’azione che si svolge sul palco la quale prende forma fotografica ma che, evidentemente, ha radici assai più profonde, in una limpida passione e nella vicinanza dell’autrice, ritengo, a queste forme espressive.
All’interno del tuo portfolio fotografico troviamo moltissima danza, teatro, arte e design. Sembra che la tua vita, forse non solo fotografica, ruoti attorno all’arte di scena. Senza escludere da questa annotazione i tuoi lavori nel campo museale e del design. Da dove viene il tuo modo di fotografare e da dove questo ambito di azione su soggetti così ben definiti? Come hai iniziato a scattare e quando ad interessanti di arti performative?
Non saprei dire esattemente da dove viene il mio modo di fotografare la “scena” in senso lato, certamente non deriva da un singolo elemento. Fondamentalmente quando fotografo non sono solo una spettatrice che, attraverso un mezzo tecnico, documenta, ma al contrario, prima dello scatto entrano in azione vari sensi e soprattutto la parte emotiva più intima che va a cogliere la narrazione meno didascalica ma più profonda, legata alle emozioni, simbolica, politica e umana. Trasporto nelle immagini non solo un’idea di ciò che attraverso, ma anche un’ideologia che fa parte del mio essere, del mio vissuto, del mio leggere il mondo. Al momento dello scatto, nella mente c’è già stata un’elebaorazione di sintesi in cui tutti questi elementi partecipano al risultato.
Nasco come fotografa autodidatta e fotografo dall’età di 15 anni. In quel momento della mia vita la fotografia è stata senzaltro uno strumento forte e capace di tradurre i miei pensieri, le mie prime esperienze e il mondo, soprattutto quello che stavo cercando. La mia fotografia è passata subito attraverso una camera oscura, piccola, spartana ma anche luogo magico che mi permetteva di stare da sola e girare il mondo interiore agendo attraverso la creatività che quella luce rossa e quelle tre bacinelle possono regalare. In parallelo tanti treni in giro per l’Italia e per il mondo per arrivare in luoghi in cui mi chiudevo per giornate intere in librerie a sfogliare tutti i libri di fotografia di grafica e copertine di disch che potessi intercettare,. Poi in giro per mostre mostre e ancora mostre. Sono stata divoratrice vorace di cultura visiva nei miei primi dieci anni di conoscenza fotografica, poi ho continuato ma con maggiore selettività. Ho negli occhi, nella mente e nel cuore tanto visivo, sguardi, racconti, biografie e vissuti.
Molto giovane sono diventata socia di una casa discografica indipendente (Materiali Sonori) che esplorava e lo fa tutt’ora, il mondo discografico a livello internazionale. Tutto quello che era sperimentazione, novità, creatività, ricerca, costruita soprattutto con mezzi non “ricchi” ma carichi di potenziale sperimentativo, è stato per molti anni il mio pane quotidiano. Musicisti e case discografiche di tutto il mondo che mi passavano dalle mani, dalle orecchie e dagli occhi. La mia fotografia è figlia di questo.
La mia predisposizione allo sguardo e all’osservazione è la peculiarità per riflettere, un pensiero che si forma attraverso il dialogo tra la vista e la mente. Questo sguardo che scava è sinonimo di fame di storie, di vita e di intimità.Tutto istinto, la macchina fotografica uno strumento relativamente facile con cui materializzare l’elaborazione del pensiero.
Quando hai iniziato la tua collaborazione con Carla Fracci e come si è sviluppata questa durante gli anni? Ci puoi raccontare un po’ quale sia il rapporto con un’artista di questo calibro e con i tempi, probabilmente non molto dilatati, che le sono propri?
- La collaborazione con la Fracci è iniziata in maniera molto casuale e simpatica nel maggio 1996, grazie a un giornalista, Enrico Gatta, che, due giorni prima dell’incontro con Carla, che non avevo mai incontrato personalmente, mi stava intervistando sul mio primo libro “Giorni di tango”. Colpito dal mio modo di narrare e soprattutto dal modo di raccontare la danza, mi sfidò in una scommessa proponendomi di andare a fotografare il debutto di un nuovo spettacolo che la Fracci avrebbe proposto al pubblico di Verona, appunto due giorni dopo. Ha fatto una telefonata alla segretaria della Fracci, dicendo che aveva una fotografa brava e interessante davanti a lui e che sarebbe stato importante il nostro incontro. Due giorni dopo ero in viaggio da Firenze per Verona. Non era un viaggio di lavoro, era una proposta lungimirante che mi ha fatto il giornalista e che ho colto con determinazione e allo stesso tempo con un grande punto interrogativo su quello che avrei potuto fare. Coraggio e incoscienza, forse.
Sono arrivata in teatro, mi è stata presentata la Fracci e lei con un sorriso mi ha detto:” Buonasera, faccia quello che sente di fare, buon lavoro.” Ho raccolto tutti i pensieri e mi sono messa in silenzio a guardare cosa stava accadendo e poi ho lasciato che le emozioni mi guidassero. Quel giorno ho costruito il mio primo incontro amoroso con lei attraverso la fotografia. Da lì tutto è iniziato ed è continuato professionalmente per 12 anni (questo solo per una questione di età non di esaurimento di collaborazione), mentre è durato per sempre a livello di stima e di amicizia.
Quando l’ho incontrata aveva 59 anni: una donna matura ma allo stesso tempo carica di energia e di grande capacità espressiva. Non una ballerina nel pieno delle sue possibilità, ma invece un’artista di grandissima esperienza e sensibilità, grande interprete. Questa è stata la mia e nostra grande sfida: non cadere negli streotipi.
Il mio confrontarsi con la Fracci per un periodo così lungo mi ha portato a costruire una scelta stilistica che non voleva lasciarsi influenzare semplicemente dal corpo “scenografico” della messa in scena. A me interessava la “donna Carla interprete” che diventava l’”artista Fracci”. Mai uguale. Un ventaglio infinito di possibilità, tante donne diverse rinchiuse nella stessa persona, capace ogni volta di trasformarsi e di cogliere gli elementi emotivi più intimi e corerenti all’opera messa in scena.
Che personalità vive dietro un artista dall’aspetto per certi versi così austero? Eppure così enormemente espressiva sul palco. Per un fotografo è più facile sfruttare la grande mimica di interpreti come lei o è più complesso riuscire a metterne in luce l’interpretazione? Lo stesso vorrei chiederti per ciò che riguarda luci e scenografie: è maggiormente un vantaggio che siano studiate ad hoc per la rappresentazione o uno svantaggio poiché occorre adeguarvisi?
Confrontarsi con artisti che calcano palcoscenici non è mai univoco. Ognuno porta con se una personalità molto forte, mai uguale e mai scontata, grande bagaglio culturale, ricerca, studio, dialettica. Ogni volta relazionarsi e craere una narrazione visiva agisce su elementi diversi che devono essere coerenti all’artista in scena, al testo, al regista, al coreografo e anche all’impianto scenografico. Non si può fare la stessa foto per spettacoli diversi, anche se viene messo in scena la stessa opera. Questa è la vera sfida. Riuscire ad essere interpreti autentici nel raccontare il lavoro culturale di altri. Mai neutri, ma capaci di penetrare a fondo gli elementi stilistici e peculiari rendendo la narrazione coerente al lavoro messo in scena ma anche segnata dallo sguardo personale del fotografo. Questa è la differenza tra un fotografo che documenta la scena e uno che la racconta.
Fotografare spettacoli “importanti” dal punto di vista di quantità e qualità di elementi in scena porta a una sicurezza di risultato. Con spettacoli così forti è impossibile fare delle foto “povere” ma è anche facile cadere nella semplice riproduzione di un evento. Fare cioè la fotografia di quello che lo spettatore comodamente seduto in platea vede, la fotografia da “fondo platea” per capirsi. E’ una fotografia certa, che non rischia perché tutto quello che coglie è stato sapientemente costruito da una squadra di persone: regista, danzatori, attori, coreografi, luci, scene, costrumi etc. Quel tipo di fotografia è fondamentale per la comunicazione dei teatri, cioè anticpare allo spettatore quello che andrà a vedere.
Con la Fracci, ma in generale, tendo a non fare questo tipo di fotografia, ma invece a diventare parte attiva e creativa nella visione e nella creazione di un racconto fotografico che agisce, conosce, esplora, attraversa, percepisce e poi racconta, appunto. Questo accade perché agisco con la “compagnia” fin dalle prove, ascoltando il regista / coreografo nel suo percorso creativo e culturale, intuendo lo scopo, lo scavo per poi rendere una sintesi in cui si aggiunge il mio sentire, il mio percorso creativo e l’interpretazione personale del lavoro.
Gli scatti di teatro ma anche di danza che includi all’interno del tuo portfolio sono evidentemente originati da una profonda conoscenza dei momenti e delle dinamiche di ciò che stai riprendendo. Come si ‘studia’ una sessione di ripresa indirizzata a arti performative di così complessa struttura? Quanto il fotografo deve conoscere la rappresentazione cui sta assistendo per capire quando sia opportuno scattare? Tu come fai?
Fotografare la “scena” in maniera non documentaristica non è semplice. Ogni volta c’è da fare un lavoro di scavo e bisogna conoscere cosa si va ad incrociare. C’è bisogno di un bagaglio culturale capace di tradurre molti elementi se vogliamo che le fotografie non siano solo foto estetiche. A me interessa la sintesi, mettere molti elementi in un unico scatto e renderli accessibili. Questo porta a creare delle fotografie che possono divenatre icone per gli artisti. Sono felice quando vedo che dopo 10/15 anni attori e ballerini continuano ad usare un mio lavoro fotografico per rappresentarsi. Non è solo riproporre un’immagine per congelare il tempo che passa, ma al contrario per rendere immortale un racconto, una visione.
Un elemento che mi colpisce molto nell’osservare i fotogrammi che fanno parte del lavoro con Carla Fracci riguarda i livelli che si creano all’interno delle tue riprese. Troviamo il gesto artistico di scena ma allo stesso tempo lo leggiamo attraverso una tua inquadratura che crea un’ulteriore finestra sullo spaccato che già è il palco. Ti capita di ‘usare’ la scena per dare vita a interpretazioni tue, a composizioni tue? Oppure cerchi sempre di comporre, di fotografare per cercare di trasferire ciò che attori, scenografo, coreografo stanno mettendo in atto? Non so se mi sono spiegato…
In generale non amo le foto frontali con una prospettiva di fuga piatta, preferisco le diagonali e lavorare su vari livelli dei piani creando così dinamicità, dando corpo ai vari elementi che si susseguono nella lettura complessiva dell’immagine.
Messa a fuoco selettiva, piani diversi, matericità delle forme, cerco di trasformare in tridimesionale la fotografia, che è invece costretta alla bidimensionalità. E’ il mio tentativo costante di trasformare le fotografie in oggetti materici. Così la composizione si articola, crea forme, geometrie morbide, linea contigue che si strutturano l’una con l’altra. Ascolti ampi che comunicano tra di loro.
Il mosso nella fotografia di danza o teatro può essere funzionale a trasferire in fotografia il dinamismo di alcune scene. Ma va controllato. Ti sei mai fatta problemi, soprattutto agli esordi, di questo controverso elemento di ripresa. O anche del corrispettivo nella terza dimensione, ovvero il fuori fuoco? Ti sono mai stati fatti notare, in senso negativo, questi importanti elementi descrittivi?
Questa domanda mi apre un gran sorriso perché alcuni anni fa su un’intervista che un giornale di fotografia mi fece intitolò l’articolo: Lucia Baldini la fotografa del “mosso controllato”. Questo per dire che l’uso del mosso controllato è stato, almeno nell’ampio periodo analogico bianco e nero e anche colore, una mia forma di ricerca stilistica molto importante. Non un elemento estetico o da “effetti speciali”, l’estetica, infatti, la costruisco come conseguenza non come scopo, lavorando sugli elementi che compongono la fotografia. Non è la ricerca estetica che vince, ma la ricerca di contenuti nella sintesi che porta ad una forma stilistica estetica molto più densa.
Questa mia scelta stilistica ha fatto si che molti coreografi, ballerini, registi e attori mi chiedeessero di lavorare con loto, riconoscendo in me uno stile iconico e la capacità di lettura profonda e di restituzione di sintesi. Con altri invece è stato un elemento di dialogo e di confronto perché cercavano delle immagini che restituissero fedelmemte, senza ulteriori interpretazioni il loro lavoro.
Mai univoco, mai neutro, mai la stessa cosa.
Dal tuo portfolio mi pare di evincere come la composizione sia sempre un elemento importante affinché tu includa una ripresa all’interno degli scatti che ami mostrarci. Trovo estremamente apprezzabile il fatto che cerchi di equilibrare le riprese inclinando se serve la fotocamera, andando a cercare pieni e vuoti, luci anche estreme ed ombre al fine di dare vita a fotogrammi consistenti. Quali sono gli elementi principali che ti fanno scegliere, tra tanti, un fotogramma alla fine delle riprese? Composizione, espressioni, distribuzione dei pesi?
Per me la fotografia è una questione di coraggio, determinazione e amore e attraverso questo si delinea nel suo disegno, nei suoi contenuti, nella sua forma. Scelgo le immagini da mostrare quando sento che contengono tutto questo, quando sono sincere, non artefatte, non semplicemente formali, ma quando portano in se un voce più ampia.
Solitamente quando avvengono le ripresa di teatro, di balletto, di danza o dei concerti cui tu presenzi in qualità di fotografa? Si scatta durante le prove o durante la messa in scena per il pubblico? Come si fa a non creare disagio per pubblico e artisti? Una vote la Leica aveva il primato della silenziosità, oggi esistono gli otturatori elettronici…
Nella maggior parte dei casi agisco nello spettacolo durante varie fasi della sua costruzione, senza pubblico e avendo un’importante libertà di movimento. Come ho detto, capita spesso che le mie immagini scattate durante le prove, diventino strumento di riflessione scenica per il regista/coreografo. Questo è successo particolarmente quando ho lavorato a due film con Carlo Mazzacurati in cui il mio lavoro prodotto durante i sopraluoghi che facevamo spesso insieme, si traducevano in elementi concreti su cui visualizzare dei passaggi della sceneggiatura.
Diversamente quando lavoro per festival di danza, teatro, musica o in situazioni in cui il pubblico è in sala, cerco una posizione funzionale alla messa in scena e che mi lasci anche un po’ di spazio rispetto il pubblico in modo da non disturbare. In questo caso tendo a scattare molto poco, aspettando che si creino dei momenti scenici potenti, possibilmente coperti da musica piena, in cui la dinamicità dei personaggi in scena sia rappresentativa per la narrazione del lavoro proposto al pubblico.
Lavoro con una macchina di una sileziosità media: Canon 5D Mark IV
Una curiosità: quando ti trovi di fronte al palco, tu segui lo svolgimento della rappresentazione attraverso il mirino o ad occhio nudo? Non hai mai la tentazione di staccare l’occhio dall’apparecchio fotografico perché ciò cui stai assistendo o stai ascoltando ti ‘prende’ particolarmente?
Generalmente mi lascio coinvolgere completamente nel confronto. Nella danza è soprattutto la musica l’elemento su cui fondo la concentrazione e generalmente è quello che mi permette di seguire profondamente ciò che accade, la dinamicità delle coreografie e l’intensità.
Nel teatro è l’ascolto del testo che guida. Tendo a stare con l’occhio in macchina, ma anche ad alzare lo sguardo e guardare largo, perché spesso vengo catturata da elementi, in teoria secondari rispetto l’azione che il pubblico sta seguendo, ma che invece spesso portano in se delle narrazioni parallele molto forti ed originali. A volte distrarsi negli eventi poprta grandi regali.
Hai preferenze tecniche nel tuo modo di scattare? Ci puoi dire con quali strumenti scatti normalmente? Anche a seconda dei vari ambiti in cui ti trovi ad operare, dato che oltre al teatro ed alla danza ti muovi anche in ambito museale, del design e del ritratto.
Nella fotografia di scena, ma anche nei vari progetti editoriali ed espositivi che ho costruito negli anni, fotografo con una reflex Canon, prima analogica ed adesso digitale. Da una decina di anni ho ceduto agli zoom, mentre prima preferivo lavorare con ottiche fisse. Darmi il limite dell’ottica fissa mi aiutava a trovare maggiore concentrazione e a costruire immagini in base al tipo di obiettivo che avevo montato, senza correre dietro ad immaginarsi continuamente altre possibilità. Questo è un tipo di limnite che mi sono data per essere più acuta e precisa nello sguardo, ovviamente a volte aver avuto uno zoom mi avrebbe facilitato le scelte, ma anche non avere troppe possibilità, per la scelta dell’ottica fissa, mi ha portata a guartdare e cercare con più attenzione.
Con l’arrivo del digitale ho deciso di optare anche per gli zoom. Un cambio di sguardo complessivo, come se avessi voluto imparare una nuova tecnica pittorica, altri strumenti, altre potenzialità.
Sono anche una sperimentatrice: per il libro “Buenos Aires cafè, che ha vinto il premio Marco Bastianelli nel 2010 come miglior libro fotografico dell’anno, pubblicato dalla Postcart, ho lavorato in bianco e nero analogico e polaroid.
Ho due macchiene fotografiche stenopeiche da molti anni con le quali mi sono inventata progetti editoriali e installazioni. Questo tipo di fotografia la uso per scelte artistiche precise, in cui mi lascio totale libertà di azione e di sperimentazione.
Lavoro anche con lo smartphone e anche in questo caso il suo utilizzo mi ha aperto la possibilità di creare delle visoni più oniriche, leggere, astratte con le quali ho realizzato alcuni libr e mostre.
Ti vorrei chiedere di dirimere da subito un dubbio che certamente assalirà coloro che hanno provato, nella propria esperienza di fotografi amatoriali, ad intraprendere riprese in ambito teatrale. Notoriamente scattare in situazioni di questo tipo è particolarmente complesso. Per via della scarsità di luce ma anche poiché le luci di scena sono complesse, variabili, spesso dure e spesso distribuite per fini narrativi e non certo fotografici. Tu come risolvi i più comuni problemi di questi tipo? E quali sono le principali complessità operative durante le riprese indoor di questo genere? Puoi dare a chi ci legge 5 suggerimenti pratici utili a muovere i primi passi in questo affascinante mondo?
Le problematiche di luce negli ultimi anni sono molto ridotte, sia per le tecnologie applicate sulle macchine fotografiche che hanno ampliato la possibilità di agire con sensibilità ISO maggiori, per cui adesso aprire a 4/8000 ISO e oltre è abbastanza alla portata di molti. Inoltre le luci di scena sono cambiate, ahimè, trasformando le belle e complicate luci analogiche nelle spesso “fredde”, luci LED. In ogni caso la potenza di illuminazione adesso è molto più ampia ed è raro avere difficoltà di esposizione, a meno che non si abbiano mezzi fotografici poco professionali.
Le cose su cui basare l’attenzione quando si fotografa in situazioni teatrli sono:
- arrivare preparati allo spettacolo che si va a fotografre, conoscendo l’opera e il regista capendo così cosa sia importante cercare e raccontare.
- non scattare molto, generalmente scattare molto è sintomo di insicurezza, ma anzi cercare di capire cosa accade in scena in modo da essere capaci di cogliere gli elementi fondamentali e potenti della narrazione.
- regolare la temperatura colore in base al tipo di LED usato in scena
- non usare a pieno la sensibilità ISO della macchina per eviatre l’effetto “rumore” nei punti pari al nero. In ogni caso ci sono delle applicazioni che aiutano ad eliminare in post-produzione l’effetto rumore.
- gestire i tempi lunghi con un cavalletto o un trepiede, anche se sono molto invasivi in teatro quando c’è pubblico in sala.
Il tuo portfolio comprende alla pari lavori in bianconero ed a colori. Un bianconero che definirei quasi ‘pittorico’ in virtù dell’ampio uso che fai di mosso, fuoco selettivo, controluce e tagli dinamici. Un colore sempre ben dosato e che evidenzia un contenimento ed uno studio sia quando sia indotto dalla situazione scenografica studiata ad hoc, sia quando sia legato a scelte tue, per esempio in relazione al ritratto. Come ti muovi nella scelta di questi due stili espressivi? Quando avviene la scelta? E che tipo di ‘trattamento’ riservi ai due differenti canoni espressivi?
Molto del mio bianco e nero è analogico e di conseguenza tutti questi elementi che hai evidenziato li uso come forma stilistica e narrativa. Il bianco e nero analogico per me è materia, quasi come se dipingessi a olio. Ci sono vari livelli che posso gestire proprio grazie alla capacità dei sali di argento di diventare materici.
Molto più difficile con il bianco e nero digitale, che per la sua ampia possibilità di definizione mi pone nuove possibilità e nuovi modi di pensare e di costruire un’immagine. E’ ancora bianco e nero ma si muove su elementi stilistici molto diverse.
Stessa cosa vale per il colore. Guardare a una situazione e immaginarla in bianco e nero, fa muovere su elementi diversi in cui il colore non ha nessun ruolo. Vuol dire che nella composizione e nella costruzione dell’immagine agisco pensando alle forme, alle linee, alla geometria, ai contenuti emotvamente forti; mentre quando lavoro a colori, ovviamente l’armonia e la narrazione che passa dai colori stessi, coniugato a tutto il resto, diventa peculiare sulle scelte.
Saltando dal teatro, alla danza per esempio rifacendoci ai tuoi scatti sul tango, il bianconero si fa più duro e noto come tu prediliga in molti casi il dettaglio, il particolare. Come per altro il controluce, che dà grande plasticità al soggetto. Cosa ne pensi di questi elementi espressivi? Li cerchi a priori o li isoli a posteriori?
Il lavoro che ho fatto sulla cultura del tango argentino è stato molto lungo e approfondito: oltre 17 anni anni di esplorazione, studio, letture di autori argentini, conoscenza di moltissima musica argentina legata al tango ma non solo, molto cinema, incontri con personalità della cultura argentina che vivono o hanno vissuto in Italia e in Europa. Questo ha fatto si che il mio approccio al tango argentino non sia stato semplicemente legato a un rapporto veloce e fugace in cui la danza prevaleva, ma bensì mi è stato elemento d’indagine potentissimo sul tentativo di comprendere vari aspetti.Elementi focali d’indagine sono stati: indagare e dare un’nterpretazione sulla relazione uomo donna, la migrazione, la malinconia che nutre lo sradicamento dalle proprie radici, come si diventa cittadini di altri mondi, come ci si adegua a una nuova cultura attraverso una nuova lingua, capire la storia migratoria italiana di fine ‘800 e inizio ‘900. Queste le linee guida su cui ho costruito la narrazione del “mio tango”.
Gli ellementi che hai individuato nelle mie immagini di tango li ho usati come forma espressiva, un linguaggio che ho applicato per raccontare qualcosa di molto più complesso, non fotografie che guardino solo all’estetica e esclusivamente alla danza tango che porta spesso in sè una lettura un po’ di superficie, tranello molto facile per un tema come quello del tango argentino.
Come a tutti gli autori che intervisto vorrei chiedere ancha a te di scegliere uno scatto dal tuo archivio, non necessariamente afferente ad un genere particolare, che possa essere definito come la fotografia cui tieni maggiormente, la ‘tua preferita’ se così vogliamo chiamarla. E raccontarci qualche cosa in più su di essa, quando l’hai scattata, perché ti è particolarmente cara, che cosa rappresenta per te. Grazie.
Molto difficle darti una risposta secca, perché ogni foto è come un figlio e non si può amare un figlio più di un altro.
Posso dire che la foto che ho scelto, scattata nei primi anni ottanta quando avevo appena iniziato a sperimentare con la macchina fotografica, è stata un tassello fondamentale su cui ho costruito la mia visone fotografica degli anni successivi. E’ un’immagine di danza, di un film americano, un musical anni’50, scattata al televisore quando i televisori avevano il tubo catodico. Forse qualcuno si ricorda e forse qualcuno ha anche sperimenato. Comunque, senza entrare troppo nei tecnicismi, fotogrefare questo tipo di televisore creando un immagine fissa facilmente visibile era impossibile, si formava sulla foto una banda nera diagolae che attraversava tutto lo schermo. Per togliere la banda nera dall’immagine si dovevano allungare molto i tempi di ripresa; 1/15”, 1/8” di secondo. Così si perdeva la problematica della banda nera, ma l’immagine si framentava per tutti i fotogrammi che scorrevano durante questo lasso di tempo. Si creva così un’immagine mossa, dilatata e allo stesso tempo frammentata. Mi affascinava in quei giorni, così giovane, sperimenatre e scoprire nuove possibilità. Questa foto racchiude alcuni elementi che non mi hanno più abbandonata:
1 – provare, sperimentando e rschiando il risultato per immaginare nuove possibilità.
2 – capire le dinamiiche del dinamismo trattenuto dal mezzo fotografico, coglierlo e non congelarlo, ma lasciarlo fluido capace di continuare ad esistere al di là del tempo e del supporto bidimensionale.
3 – la danza per il suo potenziale narrativo ed onirico
4 – dare altre possibilità ai mezzi che uso.










